I musei civici: quale futuro? Jadranka Bentini I MUSEI CIVICI, UN PROBLEMA POLITICO ATTUALE.

I Musei civici, un problema politico attuale.
L'arcipelago bolognese caso emblematico
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Jadranka Bentini
Italia Nostra - Bologna
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Il Codice dei Beni Culturali contempla in un unico articolo, il 101, i musei, le biblioteche e gli archivi in una visione unitaria delle finalità di servizio pubblico  cui sono destinati.   Fare rete, o meglio fare sistema, è diventato così da incentivo per una economia dei servizi condivisa a fronte di una crisi di risorse che limita i margini di azione e di cui non si intravede il processo di reversibilità, un imperativo per il miglioramento e l’integrazione di tutto il complesso patrimoniale destinato alla trasmissione intergenerazionale.  Su questo solco la Provincia di Ravenna, e più largamente la Romagna, si sono mosse recentemente promuovendo un convegno il cui titolo “ Immaginare il cambiamento - Musei  archivi biblioteche: verso un sistema culturale romagnolo”, teso a ricercare risposte e convergenze su forme di gestione sostenibili degli istituti culturali locali partendo dall’esperienza positiva della rete Bibliotecaria di Romagna, nata più di 20 anni fa, e da quella delle Rete museale ravennate che concentra l’offerta museale più capillarmente distribuita dell’intero territorio regionale, per arrivare ad un sistema culturale romagnolo più complesso che comprenda tutti gli istituti culturali di ogni ordine tipologico ( sullo sfondo e come incentivo al traino sta l’ambizioso progetto di Ravenna capitale per il 2019).  Riguardo ai musei le situazioni in atto sono diverse da territorio a territorio e da città a città, con la Romagna più dinamica nell’intraprendere progetti di sistema e nell’esibire una maturità più accentuata in grado ancora di coniugare il recupero degli edifici monumentali con la rilettura dei centri storici e il potenziamento dell’offerta culturale museale ( si veda esemplarmente il recentissimo studio affidato dall’amministrazione comunale di Forlì per un riesame aggiornato delle potenzialità museali cittadine “I musei civici di Forlì - Ridefinizione di un progetto”, a cura di A. Emiliani e C. Mari, Regione Emilia-Romagna, IBC, 2013, che potremmo leggere come proiezione attuale della metodologia di lavoro a sua tempo usata per la definizione di grandi progetti museali a scala urbana, avviati e concretizzati dall’IBC negli anni ottanta su contenitori e materiali storici di riferimento nelle maggiori città della regione: Piacenza che costituì una delle tappe significative).
Secondo lo studio dell’IBC aggiornato al 2006, ma pubblicato nel 2009-10, la nostra regione vanta 379 musei, un quarto dei quali concentrato nella sola provincia di Bologna e la cui categoria prevalente è quella dei musei d’arte: dell’intero complesso, eminentemente di formazione storica, un’ottantina hanno aperto i battenti dal 2000, ad essi si sono poi affiancati da pochi anni i musei ecclesiastici, più nutriti quelli diocesani, meno corposi quelli parrocchiali con i quali si dovrebbe rafforzare un dialogo efficace: nella sostanza si tratta di un patrimonio capillarmente diffuso sul territorio e insieme a forte concentrazione urbana nei capoluoghi di provincia e nei centri urbani maggiori.  La produttività del settore, per il quale la peculiarità degli istituti che ne fanno parte è stata da sempre quella di forte alacrità di iniziativa e di mobilitazione trasversale di progetti, e non da oggi ( si ricorda l’attività dei singoli musei e la vera e propria politica museale promossa dall’IBC fin dal suo sorgere statutario, di cui il riconoscimento e l’applicazione degli standart di qualità per i musei quale traguardo prioritario per le prestazioni in tutti gli ambiti di attività è l’ultima tappa importante), ci pare debba continuare ad essere – e su questo di insiste -  pur nelle difficoltà odierne, quella di un’azione eminentemente tecnico-scientifica correlata all’identità del singolo ma in continua trasformazione nell’utilizzo di pratiche anche consumate come mostre, convegni, seminari, senza derive economicistiche di sorta ( nei fatti al tramonto ) o matrimoni impossibili. I musei sono una risorsa indiscutibile, ma nella galassia dei musei cresciuti numericamente senza una visione d’insieme, più o meno come le facoltà universitarie sul territorio della penisola, l’istituto museale, piccolo o grande che sia, ci appare oggi un soggetto depresso, se non inanimato, in progressiva solitudine, distanziato dai luoghi della contemporaneità come dagli investimenti pubblici e privati, in molti casi scomparsi dalla vita politica delle città con labile eloquenza solo in casi contingenti.
Per questi ultimi i tempi, si dirà, sono cambiati.   Non si parla più di leggi e di decreti varati dall’85 al 2000 la cui applicazione è sempre stata, in verità, malferma, disattesa  quando non avversata, ma la cui applicazione rispondeva a precisi criteri di ripartizione delle responsabilità e dei compiti, dalla progettazione al controllo ( L. 512/ 85, Istituzioni di Fondi per sponsorizzazioni accentrati al Ministero, Proventi del gioco del Lotto, Convenzioni fra organismi pubblici e Confindustria ecc. e se ne vorrebbe sapere di più sugli esiti dell’applicazione dell’art. 40 comma 9 del D. L. n. 201 del 6-12-2011, in materia di semplificazione amministrativa per le erogazioni liberali): l’accelerazione data dalla visione mondana mina spesso l’identità e la valorizzazione del patrimonio sedimentato; in via di declino - ma talora resiste- la spettacolarizzazione per ragioni di scarsità di investimenti mirati, si pensa di cedere alle lusinghe di un rammodernamento dei luoghi museali a fini più accattivanti per il pubblico per via di installazioni di strutture accessorie a detrimento delle forme storiche dell’esistente: a fronte di situazioni in essere già ricche e sfaccettate nelle tipologie, si creano nuovi soggetti museali mirati a condensare, attraverso ricostruzioni storiche allusive, le forme autentiche del reale; si imboccano strade costose, alternative a quelle a suo tempo viste e concordate, per risolvere problemi annosi di convivenze difficili e non funzionali fra istituti di varia natura; si assiste allo scorporo di funzioni tecnico-scientifiche delegate ad altri settori con mortificazione delle professionalità esistenti che sono le vere detentrici della produzione museale,  da riformare e calibrare in ragione dello sviluppo dei nuovi metodi di comunicazione e di vitalità complessiva dei musei ( e in tal senso la promozione, da parte dell’AMLI, di promuovere un percorso di formazione specifico per operatori museali, raccolto dal MuSec di Ferrara, ne è una risposta).    Dare voce critica a questi casi sarà compito del convegno, non per amore di polemica o nostalgia del passato, ma per costituire una base di discussione più ampia nella piena consapevolezza che difendere i musei pubblici non sia solo un compito, ma un preciso dovere civico e sociale.

 E’ chiaro che i musei esigono non solo attenzione, ma risoluzioni, pena la loro scomparsa e neanche troppo lenta.  Nulla è per sempre,  inutile negarlo.
Nel sapiente saggio di Claudio Leombroni sul n.° 14 dei Quaderni di Didattica museale della Provincia di Ravenna, in previsione di un progetto di convergenza fra musei, biblioteche e archivi, l’autore asserisce che “ la costruzione di un museo moderno immerso nell’universo digitale, non si può ispirare ad un principio selettivo, ma piuttosto ad un principio partecipativo che riconosce nel pubblico la possibilità di interagire e di ‘manipolare’ gli oggetti a seconda delle loro preferenze”.  Il concetto è quello di una progressiva sfumatura dei confini fra musei, archivi, biblioteche, questi ultimi due molto più avanzati dei musei nell’applicazione di comuni obiettivi come nel superamento di demarcazioni settoriali dovuti alla compartecipazione già collaudata in servizi unici a cominciare da quelli digitali   (vedi L. R 18/2000 in materia di biblioteche, archivi storici ecc.).  Ma se è pienamente comprensibile la volontà di realizzare percorsi condivisi attraverso l’uso delle più moderne tecnologie fra biblioteche e archivi da una parte e utenti dall’altra, per creare quella ‘narrazione’ di cui ha parlato anche Stefano Vitali nello stesso convegno ravennate in apertura, più sfumata appare la tassonomia di relazioni proposte anche per i musei e riassunte nei termini cooperazione, coordinazione, collaborazione, convergenza, come risolutive per la loro vitalità: si tratta piuttosto, ci pare, di forme inter-relazionali ormai indispensabili nella promozione culturale come nell’economia di gestione di tutti gli istituti culturali per i quali soprattutto l’applicazione della tecnologia al servizio della conoscenza – ed è questa che  i musei devono alimentare con metodologie al passo con i tempi, pena la loro estinzione -  e per quella che si usa oramai definire ‘democrazia partecipativa ‘gioca un ruolo ormai irrinunciabile e insopprimibile, costituendosi come forma strumentale più economica e dunque più sostenibile per tutti.  Ampio spazio è dato in tal senso dal piano strategico metropolitano di governance sui distretti culturali all’osservazione fra Comune e Provincia di Bologna. 
Ciò che preoccupa , proprio a fronte della crisi economica, è la crisi più generale del concetto di patrimonio come sedimentazione fisica di opere e oggetti connaturati alla città storica, anch’essa in crisi, nonché il rilassamento della ricerca storico-artistica come base di progresso scientifico.
“ Del museo deve essere garantita la continuità e il permanere nel tempo quale polo di aggregazione e motore della memoria e di formazione.” Sono parole dell’economista Irene Sanesi.   Le ricordava Andrea Emiliani nel lungo saggio Il Museo nella città italiana- Vicende storiche e problemi attuali , Terni, Motta ed. 2004, non senza rammentare che la gestione del museo d’arte è essenzialmente quella artistica, cioè “ la ricchezza tecnico-scientifica che deriva da una saggia visione epistemologica e attraente del museo  e del patrimonio.  Essa illumina lo spazio e il tempo, alla cui intersezione si alimenta la conoscenza dell’opera d’arte e si premia la cultura più equa del decentramento e del riequilibrio territoriale e urbanistico italiano”.    E qui sta tutta davanti la concezione dello stesso art. 9 della Costituzione come, soprattutto, la ineguagliabile differenza o forse meglio “anomalia italiana”, come è stata definita, vale a dire quella diffusione e quella stratificazione patrimoniale e museale della penisola dall’equilibrio difficilissimo nella pratica del suo governo, immaginiamo se in pericolo di sottostima, confinato fra gli ultimi o attaccato da pratiche  incongrue.   Si ha la sensazione che non poche amministrazioni locali, messe di fronte alla gestione ne intendano solo i termini strumentali ultimi del processo qualificante dimostrando con ciò di non avere ben presente il valore sociale del patrimonio artistico e storico. 
Si sente dire da qualche parte, neanche troppo lontana, che i musei di arte antica andrebbero chiusi: troppo costosi in termini finanziari, poco produttivi, tempi troppo lunghi nella gestazione delle azioni; più vantaggioso guardare il presente senza la “zavorra”del passato, meglio organizzare “eventi”in cui la creatività, parola di cui sembra essersi perduto il vero significato, sia all’ordine del giorno.   Dietro la mancanza di denaro –  fra liquidità e bilanci tardivi – si nasconde, e neanche troppo velatamente, una certa ignavia di comportamento, un distratto affidamento della sorte dei musei e del patrimonio civico ad altri, una sorte di delega all’intervento in materia ad altri soggetti i quali operano certo non per sussidiarietà cercando di colmare vuoti difficilmente recuperabili anche alla lunga distanza.
Oggi che si è corrotto il rapporto fra quantità e varietà di persone e luoghi congestionati della città, non solo storica, dovrebbe prevalere nel governo del patrimonio come nell’educazione civica il concetto di bellezza funzionale contro il degrado: e in tal senso va ripensato anche l’apertura al turismo delle cosiddette città d’arte come l’applicazione di modelli gestionali “ multiscala” studiati per territori omogenei nella sedimentazione e nella diffusione di patrimoni museali.
La crescita dell’arte contemporanea, concetto assai mobile, ma non per questo nemico della storia, del già accaduto, ha spinto in molti casi ad una enfatizzazione della realtà in movimento contribuendo ad ingessare i musei storici che sono invece, e non solo per definizione, luoghi di accumulo di materiali scanditi nel tempo senza cesure selettive o pregiudiziali.  I musei, lo riconosciamo tutti, non sono luoghi statici, ma dinamici, da difendere come tali, ma anche da aprire a nuove dimensioni in relazione alle nuove istanze che avanzano - nuove acquisizioni, internazionalità, multi etnicità, complementarietà con le altre tipologie di materiale storici ecc. – entro le quali anche il contemporaneo deve svolgere lo stesso ruolo di bene comune e di bene relazionale, sul piano della pari dignità ( in tal senso ci pare stimabile l’istituzione dell’Osservatorio per il contemporaneo  che garantisce l’attendibilità dei progetti sul contemporaneo fra Museo Marini di Prato e l’Ente Cassa di Risparmio locale, al pari di quella relativa all’Osservatorio dei mestieri storici).

Ho parlato di punti nevralgici in talune città sullo sfondo odierno di una crisi che, se non consente risposte immediate, almeno esige attenzioni e ipotesi di possibili percorsi per i musei sottoposti ad una rapida accelerazione di cambiamenti specie quelli di matrice ‘antica’.  Leggo sulla stampa di ieri che il Comune di Bologna ha finalmente maturato l’idea di candidare i portici quali Patrimonio mondiale dell’umanità. La cosa da un lato mi conforta perché finalmente risponde ad una domanda fatta a suo tempo agli allora candidati amministratori rimasta senza risposta, dall’altro mi sorprende avendo constatato da anni l’impotenza a risolvere i problemi di degrado e di sporcizia che affliggono Kilometri l e Kilometril di portici fra mancanza di manutenzione, rotture pavimentali, cedimenti, corrosione di capitelli, imbrattamenti, saracinesche e portoni bellamente dipinti a figurine, insomma tutto quel repertorio di nequizie che va sotto il nome di degrado.  Se questa decisione sarà accompagnata dalla precisa volontà di trovare metodi di risarcimento all’attuale stato e serie prospettive di controllo e di buona manutenzione, vorrà dire che il Comune ha finalmente deciso di reinvestire sulla città storica e che anche i musei, ad essa connaturati, ne saranno coinvolti.   Ma parlare di questo ci porterebbe lontano, anche se non fuori campo, trattandosi di materia e corpo fisico di cui sono fatti anche i musei: la crisi dei centri storici, definizione che a molti pare obsoleta, va infatti di pari passo con l’analoga dei musei di arte antica.
La domanda che affligge non solo Italia Nostra, ma tanti cittadini bolognesi, è la sorte di Palazzo d’Accursio ora che i servizi amministrativi, anagrafici e gli assessorati sono stati spostati a Liber Paradisus e l’edificio suona in larga misura come una scatola vuota.   Il vecchio progetto di utilizzo a fini museali del palazzo legato ai finanziamenti del 150° dell’Unità d’Italia, che ne prevedeva anche la riqualificazione strutturale completa e le dotazioni di sicurezza,  si è smarrito per dirottamento di investimenti e non è comparsa finora alcuna alternativa ad utilizzi parziali o occasionali, quando non impropri.   Ci si aspetta che dopo il riordino delle strutture organizzative di riferimento dei musei sfociato, dopo anni di instabilità, nell’accorpamento in una unica Istituzione Musei di tutti gli istituti della città, ben 13, articolati in aree disciplinari, fra i quali dividere finanziamenti sempre più risicati, questa elabori un piano di riordino delle raccolte ancora in deposto, inespresse o in sofferenza, e una loro destinazione.  Per ora, in attesa di una rivalutazione complessiva specie delle presenze storiche, azioni di una certa eloquenza si sono rivelate esclusivamente quelle correlate a rivisitazioni con cadenza annuale di appuntamenti fieristici a valenza economico-culturale come Arte Fiera e  Arte Libro, insieme ad alcune iniziative espositive singolari, piccole ma di pregio, e la messa a punto di siti didatticamente davvero esemplari, costruiti dal Museo Archeologico, decano della buona didattica e della ricerca nell’ambito del collezionismo dell’antico, e del Museo del Risorgimento in congiunzione con la Certosa di Bologna.
Un articolo ben noto del Giornale dell’Arte del novembre scorso parlava di “dotta decadenza di Bologna” a fronte del modello di conservazione e progettualità del recente passato.    L’annunciata grande mostra La  ragazza con l’orecchino di perla, promossa dalla Fondazione Carisbo, non ci sembra andare nella direzione giusta, piuttosto raccogliere tardivamente una ben nota forma di evento a fini turistici, attivato attraverso il prestito di capolavori altrimenti visibili nei musei d’origine.  L’argomento  è stato al centro di una recentissima polemica sulla stampa a proposito di finanziamenti alla cultura fra l’ assessore Ronchi e la Fondazione Carisbo con ‘Genus Bononiae’, sullo sfondo delle mancate risorse al teatro Comunale e più largamente alla cineteca e ai musei in tempi di crisi.   Difficile non essere d’accordo sulla dispersione di risorse in iniziative effimere a detrimento degli Istituti culturali permanenti, come discordi sulla convergenza in grandi progetti di strutture non ancora esistenti ( l’Auditorium di Renzo Piano).     Ha ragione del resto Roversi Monaco quando ricorda il salvataggio e la valorizzazione di palazzi storici oggi confluiti in Genus Bononiae – Musei della città, struttura che opera con una intensa attività di coinvolgimento urbano.   Proprio a fronte delle iniziative espositive  intraprese a Palazzo Fava, incentrate sulla valorizzazione delle raccolte della Fondazione, i maestri in esse presenti, sul collezionismo più nobile che contraddistingue la città e su artisti italiani in parte inesplorati, giunge stonata la proposta del pur magnifico Vermeer, eccedente da ogni buon indirizzo precedente.
Le mostre ( città come Ferrara, Parma e Forlì - quest’ultima con la Fondazione Cassa dei Risparmi in consorzio di intenti con l’Amministrazione comunale, nell’utilizzo del San Domenico, ha saputo coniugare con intelligenza l’allestimento di grandi mostre con il patrimonio artistico della città e del territorio ), hanno dimostrato di non essere in grado di generare un reale rafforzamento dei musei, perché rivolte a rafforzare sopratutto il concetto di città d’arte turisticamente intesa, da assaggiare fuggevolmente in un’economia ristretta di tempo.      E’ un sentire allargato, non solo di Italia Nostra, quello dello scollamento a Bologna fra amministratori e Fondazione Carisbo negli investimenti per la cultura e i musei, vissuti come attori separati che seguono piste diverse senza un piano di riferimento unitario ( e quest’ultimo dovrebbe essere elaborato dal Comune).
Anche il Museo della città rientra in questa logica di ‘divergenze parallele’, potremmo chiamarle.  Italia Nostra ha già espresso le sue riserve in merito, che qui si omettono per brevità, condensate nell’intervento dell’allora Presidente nazionale, Alessandra Mottola Molfino, in occasione di una tavola rotonda sui musei promossa da Arte Libro nell’ottobre del 2009.  A caldo si parlava di invasività, costi eccessivi, mancanza di un progetto unitario storico-scientifico di riferimento.  Oggi, a museo collaudato, non ci sembra che le intenzioni iniziali di farne un laboratorio per la storia della città connesso ad altre realtà abbia avuto esiti tangibili, se non come stazione orientativa per le scuole.     Un ‘museo della città’ modernamente inteso in una città come Bologna che della conservazione delle sue forme ha fatto esercizio continuo per decenni, dovrebbe  presentarsi come un museo interattivo sul tipo torinese, per intenderci ( un progetto cui hanno partecipato Enti, Istituzioni pubbliche, istituti culturali supportati dalla Compagnia di san Paolo), in cui gli strumenti tecnologici e filmici in campo, ai quale è affidata la narrazione della città, da accessori divengono “medium” essenziali del museo stesso, rinunciando da un lato a racconti fatti intorno ad oggetti decontestualizzati o a teatri ricostruiti, e dall’altro facendo interagire in un unico sistema musei biblioteche e archivi in continua evoluzione: da portale d’accesso a viaggio spettacolare integrato nella storia della città.