I musei civici: quale futuro? Ranieri Varese MUSEI CIVICI A FERRARA

Musei civici a Ferrara

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Ranieri Varese
Italia Nostra - Sez. di Ferrara

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La situazione dei musei ferraresi è in qualche misura anomala se confrontata con le altre proprie delle città della regione. Ferrara, città capitale per almeno due secoli, ha perso tale condizione nel 1598, con la devoluzione allo stato pontificio: non è stata mai sede di gallerie nazionali preunitarie, come saranno, ad esempio,  Modena e  Parma. Ha tuttavia una forte presenza di musei nazionali di recente istituzione - prima metà del secolo XX - che contrasta con quanto è accaduto nelle altre città emiliano romagnole.
            Non si tratta di discutere, è bene ribadirlo, di una partizione sulla base delle amministrazioni proprietarie, tema che, credo, qui interessa solo lateralmente, ma invece di individuare una tipologia importante e significativa per il territorio di appartenenza. Senza voler azzardare definizioni, credo si possa parlare di ‘museo civico’ come della istituzione che, in senso largo, raccoglie, preserva, valorizza e propone le memorie, gli avvenimenti, i valori che nel corso dei secoli hanno caratterizzato la città, ne illustra le istituzioni e i comportamenti, senza selezioni o partecipazioni sentimentali.  Un ‘museo civico’ può essere anche statale e nazionale per quanto riguarda la gestione, la quale, di regola,  nel centro e nel nord del nostro paese, è storicamente affidata alle amministrazioni locali che se ne sono fatte promotrici.
            Il primo nucleo in Ferrara si costituisce nel 1735 quando il marchese Ercole Bevilacqua dona all’Università la propria raccolta. Strettamente legato alla Biblioteca, il museo, continuamente accresciuto tramite donazioni ed acquisti, segue le vicende dello Studio pubblico presso il quale è collocato in Palazzo del Paradiso.   Di origine privata e nonostante lo stretto collegamento con lo Studio e le sue vicende fortemente intrecciate con quelle della biblioteca, immediatamente esso si configura come ‘museo civico’. E’ costituito da materiale archeologico, numismatico, naturalistico, di testimonianze della storia della città: i dipinti sono pochi, scelti a documentare personaggi cittadini o episodi significativi  legati a Ferrara come la serie dei ritratti dei cardinali ferraresi o la copia del quadro che rappresenta il supplizio di Girolamo Savonarola, fatta eseguire e donata nel 1789 dal cardinale Giovanni Maria Riminaldi.
            In Ferrara si andranno in seguito a costituire altri musei, con caratteristiche diverse, non solo nazionali, più spesso di iniziativa comunale: nel 1836 la Municipalità istituisce la ‘Patria Pinacoteca’ la quale si forma soprattutto con dipinti trasferiti dalle chiese e là sostituiti con copie; nel 1842 le opere vengono trasferite dal palazzo comunale nella attuale sede di palazzo dei Diamanti.     La costituzione in museo della Palazzina di Marfisa d’Este, avvenuta nel 1938, nasce come luogo di rappresentanza della amministrazione.    Entrambe non interferiranno sui temi del museo civico ma, oggettivamente, lo limiteranno perché trasferiranno altrove risorse e attenzione.
            Il Museo Nazionale Archeologico, istituto nel 1935 nel palazzo Costabili, raccoglie invece in prevalenza i corredi funerari della città di Spina, senza avere alcun collegamento, né per formazione, né per intenzioni, con il museo civico. 
            Ritornando al primitivo nucleo, il primo atto che ne intacca la compattezza e ne diminuisce fortemente il significato è, nel 1869, la decisione di spostare il materiale naturalistico presso l’ex convento delle Martiri. La nuova sede fu inaugurata nel 1872; tutto restò fortemente legato all’Università tramite convenzione, revocata nel 1949, ma la direzione delle raccolte restò al professore titolare dell’insegnamento di Zoologia sino al , quando l’amministrazione comunale bandì il concorso per la direzione. Dal 1937 è nella attuale sede.
            Ad una situazione in cui prevale la volontà di dividere il materiale in piccoli nuclei pertiene la nascita del Museo del Risorgimento. Il Municipio raccolse le testimonianze che saranno inviate alla mostra torinese del 1884; al ritorno molte verranno depositate a formare il nuovo museo il quale si pone come integrazione della memoria cittadina e testimonianza della partecipazione al processo di unità nazionale. Ebbe una sua autonoma sede in Palazzo dei Diamanti senza collegamenti, come sarebbe stato naturale, con il museo sito in Palazzo Paradiso. Verrà smontato nel 1933 per fare posto alla mostra della pittura ferrarese del rinascimento; riapparirà, diminuito e trascurato negli anni cinquanta del secolo scorso.
            Vanno infine ricordati i rischi insiti nella recente operazione (2006) intitolata Museo Riminaldi : provvida se si è voluto studiare e presentare la parte del museo civico riconducibile alle donazioni del Cardinale Riminaldi; angusta, se tende ad isolare e scorporare un significativo gruppo di materiali non scindibile dalle altre raccolte.   Ma non è questa la sede per una analitica storia delle vicende che hanno caratterizzato, dal ‘700 ad oggi, la situazione ferrarese; gli schematici cenni forniti credo siano sufficienti a dare un quadro generale.
            Traumatica e occasione di acceso dibattito fu la decisione, nel 1897, di spezzare il legame con la biblioteca e l’Università, allora municipali, e di trasferire nel Palazzo di Schifanoia gran parte delle opere che costituivano il museo. Ad esso vennero destinate due sale adiacenti al ‘Salone dei Mesi’ poiché il resto del palazzo era in vario modo occupato dalla università e da utenze private.    Il risultato, prevedibile e previsto dagli organizzatori, fu, di fatto, la cancellazione del museo che scomparve dal panorama cittadino almeno sino agli anni settanta del secolo successivo, quando l’edificio viene liberato da presenze improprie e il patrimonio riallestito.
            Il centenario ariostesco celebrato nel 1933 costruisce una linea di intervento sulla quale convergeranno non solo l’amministrazione fascista ma, dopo il 1945, anche quelle dell’Italia repubblicana.    Nel fitto calendario di iniziative prese in quella occasione spicca per importanza e significato la Esposizione della pittura ferrarese del Rinascimento: aperta dal maggio all’ottobre del 1933 e dal maggio al luglio del 1934, ebbe quasi duecentotrentamila visitatori e divenne un modello espositivo per il futuro.
            La mostra cancella i musei preesistenti; il museo del risorgimento scompare; la pinacoteca viene smantellata e, alla chiusura della esposizione, sarà riallestita secondo i criteri che Nino Barbantini aveva dato, vale a dire una edizione ridotta della Esposizione. Il museo civico era già scomparso; il museo nazionale archeologico non è ancora sorto e quando verrà istituito avrà logiche diverse. Del tutto naturalmente questo ‘evento’ diviene l’esempio al quale rifarsi per ogni successiva iniziativa nel settore.  Nel 1936 le celebrazioni per l’ottavo centenario della fondazione della cattedrale ripetono infatti lo schema delle manifestazioni ariostesche.
            La guerra colpisce duramente la città ed il suo patrimonio. Il problema della ricostruzione è generale e riguarda anche i musei, in particolare  la Pinacoteca, l’unico istituto civico ancora presente.  La scelta, perseguita con forte determinazione, è quella della dismissione. Se ne era cominciato a discutere nel 1949; si concretizza nella seduta del Consiglio Comunale del 30 dicembre 1954 con la deliberazione che autorizza il passaggio allo Stato dell’edificio e delle opere.
            Vale forse la pena di ricordare che in convenzione vengono poste alcune, lievi, condizioni a tutela del rapporto con la città. L’art. 8 recita: “Tutte le opere d’arte che costituiscono la Pinacoteca e quelle che perverranno in seguito, non dovranno per alcun motivo, essere rimosse dalla Pinacoteca stessa, salvo temporanei trasferimenti per ragioni di eccezionale urgenza o di interesse artistico, come ad esempio, per mostre di carattere nazionale o restauri di impossibile attuazione a Ferrara, dandone comunque preventivo avviso al Comune di Ferrara.”  Comunicazione mai avvenuta in questi 59 anni; così mai il direttore della Pinacoteca ha preso la residenza a Ferrara, come era stabilito.   Anche il lapidario moderno, custodito a casa Romei, facente parte organica pure esso del contesto ‘museo civico’, viene trasferito allo stato senza che risultino atti formali di cessione.
            Restava alla municipalità la galleria d’arte moderna, offerta e rifiutata: un conservatore onorario la reggeva insieme a quanto custodito a Palazzo Schifanoia.
            La presenza della amministrazione civica nel periodo successivo alla guerra è, in questo settore, tenue, ma esiste. E’ coerente con le dismissioni compiute e con la tradizione precedente, con la fragilità e il degrado delle strutture museali.
            Si ricomincia con le mostre: ricordo quella di De Pisis del 1951, quella dedicata al Rinnovamento dell’arte in Italia 1930-1945 del 1960 e l’altra dedicata a Boldini del 1963. A partire dagli anni ’70 le opere delle gallerie d’arte moderna vengono spostate nei depositi e le sale utilizzate unicamente, ancora oggi, per esposizioni: una scelta lecita, non l’unica possibile e passibile di conseguenze, con una disattenzione nei confronti delle strutture protrattasi per anni.
            La situazione, almeno parzialmente, muta a partire dagli anni settanta con il trasferimento alle regioni delle competenze per quanto riguarda ‘i musei di enti locali’. Vi è una serie di provvedimenti governativi, dal DPR 14 gennaio 1972, alla legge 382 del 22 luglio 1975, al DPR 24 luglio 1977 che, se pure con lacune ed ambiguità, cambia profondamento l’assetto normativo consentendo una legislazione regionale che, in Emilia Romagna, nasce da un ampio dibattito il quale conduce anche, nel 1974, alla creazione dell’Istituto per i beni artistici culturali e naturali.
             A Ferrara il museo civico avrà, per la prima volta, un organico, personale strutturato, autonomia e competenze su tutto il patrimonio storico, anche non musealizzato, di proprietà dell’ente.  Non viene meno la scelta dei ‘grandi eventi’, a cominciare dalle mostre ma, grazie anche a consistenti finanziamenti regionali, parallelamente vengono riaperti i musei civici nelle sedi di palazzo Massari e Schifanoia, riallestite le collezioni, costituiti servizi per il pubblico ( biblioteca, fototeca, una linea editoriale, cataloghi).    Si tratta di una condizione che parzialmente si esaurisce con la riduzione degli stanziamenti in bilancio, con la istituzione di ‘Ferrara Arte’, con il sempre più evidente impegno a sostegno delle mostre e al tentativo, poco riuscito, di deviare i flussi turistici che scorrono sull’asse Roma-Firenze-Venezia.   Vengono chiusi o non incrementati i servizi, diminuisce sino al limite dell’agibilità la manutenzione degli edifici. Scompaiono le figure apicali; coloro che reggono i musei d’arte moderna e antica, non sono veri ‘direttori’, ma ne esercitano solo la funzione: diminuiscono autonomia scientifica e incisività, creando dipendenze e condizionamenti.
            Questo lo stato delle cose sul quale si abbatte, nel 2012, la forza dirompente del terremoto il quale agisce come una cartina di tornasole ed evidenzia limiti, rischi e velleità.
            Va, per chiarezza, notato che la contrapposizione mostre-musei è una invenzione strumentale di chi, incapace di programmazione, si rivela egualmente incapace di riconoscere e utilizzare le strutture esistenti, efficaci per progetti espositivi che nascano nella città e dalla città.
            E’ una opzione misera limitarsi ad acquistare e presentare le mostre offerte dal mercato; alcune sicuramente importanti e ben fatte. Le gallerie d’arte moderna hanno compiuto una necessaria opera di informazione per quanto riguarda l’arte contemporanea: è mancata però attenzione verso il patrimonio cittadino. E’ venuto meno, ed è stato un limite che ha inciso sia sul turismo che sulle proposte, la capacità di utilizzare le strutture esistenti.  Ferrara, le cui qualità e ricchezze sono state riconosciute dall’Unesco, ha al suo interno potenzialità attraenti che possono generare rassegne, e non solo a tema locale; esiste la possibilità di un circuito virtuoso che unisca mostre e musei, che elimini lo spreco di competenze non impiegate, di temi non percorsi.
            Bisogna sapere uscire da uno stato di profondo squilibrio. Non siamo all’anno zero, credo vi siano le condizioni e le competenze per superare difficoltà che sono avvertite, mi pare, anche dagli amministratori pubblici.
            Una occasione importante è stato il convegno Musei a Ferrara: problemi e prospettive (2011); curato dalla associazione ‘Amici dei musei e monumenti ferraresi’ ha visto la partecipazione di amministratori, funzionari e associazioni: un incontro non rituale dal quale sono scaturite proposte precise che non vanno lasciate cadere.
            Sarebbe certamente irrealistico e sbagliato tentare di promuovere la ricostituzione del ‘museo civico’ nella sua forma iniziale. Le parti separate hanno acquisito autonomia e specificità che vanno salvaguardate: è invece auspicabile una ricostruzione storica che consenta di riconoscerne, attraverso le vicende, le intenzioni, il loro mutare all’interno della storia della città.
            Si può tuttavia riconsiderare il collegamento museo civico-museo del risorgimento e della resistenza; si possono ricollocare ad esempio più legittimamente i dipinti del Chittò trasferiti (perché ?) in municipio; si possono riaprire riflessioni sulla riunificazione dei lapidarii.
            Il convegno del 1984, edito nel 1986 – Musei ferraresi. Proposte di un sistema, a cura dell’istituto Gramsci-  aveva ipotizzato la conoscenza della città attraverso percorsi tematici che comprendevano musei, edifici religiosi e sedi pubbliche. E’ una ipotesi ancora attuale che varrebbe, credo, la pena di ripercorrere aggiornandone i contorni.
            Il convegno ha proposto una linea che mi sento di ripresentare in questa sede: quella della costituzione di un ‘sistema’ che comprenda, al di là della appartenenza a diverse amministrazioni, tutti i musei presenti nella città e nella provincia.  Non si tratta di una proposta eversiva; è prevista sia dalla legislazione nazionale che da quella regionale: è stato già istituito in città come Modena, Ravenna, Rimini e  funziona.
            Non insisto, anche se è tema importante, sulle economie di scala, sulla possibilità di unificare servizi e di presentare una offerta unitaria al pubblico dei visitatori. Voglio sottolineare invece l’occasione che si presenta di ricostruire, senza intaccare autonomie e specificità, un tessuto coerente capace di gestione concordata e di progettazione comune..
            A Ferrara esiste il problema del recupero della cultura scientifica che è nella storia della città ma che ancora non è stata inserita nella sua identità. Le collezioni universitarie detengono gran parte dei materiali; penso alla ‘Collezione istrumentaria delle scienze fisiche’, agli strumenti chimici, alle cere anatomiche, al Museo di paleontologia e Preistoria al quale si affianca il civico di Storia naturale; in altre sedi si trova diverso materiale disperso, come le cassette per ingegneri a Schifanoia.   Esiste poi il problema del recupero generale del tema della città, da troppo abbandonato e, al suo interno, la necessità di uscire dallo stereotipo ‘età estense – età dell’oro’.
            Bisogna pensare ad un nuovo tipo di visitatore, preparare gli strumenti che destino interesse per la città, per la sua storia, per un percorso lungo di visita, non limitato alla occasione espositiva per sua natura scollegata dal contesto e destinata ad esaurirsi in poche ore.  Dobbiamo convincerci che anche i ferraresi hanno bisogno di conoscere la città.
            Nel pur ampio panorama museale manca il ‘museo della città’.  Vi è il problema di costruire e ricostruire dei servizi e delle occasioni che consentano agli interessati di venire a studiare a Ferrara. Bisogna pensare alle biblioteche, alle fototeche, ai servizi di documentazione; agli sbocchi editoriali, alle guide, ai cataloghi, ai saggi di ricerca. Mancano i cataloghi delle gallerie d’arte moderna e contemporanea; quelli del museo civico, in parte esauriti, hanno bisogno di aggiornamenti e adeguamenti; è scomparso il bollettino musei civici; è assente una biblioteca specializzata in storia dell’arte; sono state rifiutate donazioni che avrebbero contribuito a crearla; la fototeca non viene incrementata.
            Non si tratta di una lamentazione: è parziale l’elenco delle cose che andrebbero fatte e per la loro realizzazione è necessario adoperarsi: l’indicarle è un modo propositivo di collaborazione con chi ha la responsabilità della gestione.  Non si può non richiedere, e per la nostra parte iniziare a parlarne, un confronto sul rapporto fra le istituzioni, in primo luogo con l’Università, e fra le istituzioni e l’associazionismo culturale.
            La funzione delle associazioni, in particolare di ‘Italia Nostra’, è una funzione sollecitante. Non dobbiamo gestire nulla ma dobbiamo continuare ad indicare, come sempre abbiamo tentato, temi, proposte, modi e modelli; richiedere il confronto, esigerlo, incalzare le amministrazioni, coinvolgere la città, costruire un ‘senso comune’ che renda impossibili e improponibili abbandoni, disattenzioni, cadute e compromessi.  E’ la ricerca di un dialogo, non una volontà di rottura.
            Prima di concludere, sollecitato dagli interventi che mi hanno preceduto, mi si lasci esprimere su alcune cose dette nel corso della giornata.
            E’ stata reclamata la ‘autonomia’ del museo civico dalle amministrazioni di appartenenza. Una proposta dalla quale dissento profondamente per le ragioni che accenno.
            Il Comune è la istituzione più vicina ai cittadini, quella alla quale ci si rivolge in prima istanza e nella quale ci si riconosce. E’ l’amministrazione che fornisce i servizi necessari per vivere nella città. Il Museo civico è lo strumento che consente di collocare la propria cittadinanza nella storia, nella memoria e nella coscienza non solo collettiva ma individuale.
            Spezzare questo legame vuol dire perdere una possibilità di partecipazione e di integrazione. Sul piano pratico significa la fine dei musei dei centri minori; nella nostra regione (non è un caso eccezionale) la rete capillare dei musei copre tutto il territorio con oltre duecento istituti legati a piccoli o piccolissimi insediamenti. Dare ‘autonomia’ alla Pinacoteca di Argenta o alla Galleria di Copparo o al museo di Stellata di Bondeno, per fare esempi nel territorio ferrarese, vuol dire la drastica riduzione o eliminazione dei capitoli di bilancio, la impossibilità di servirsi delle strutture di manutenzione comunali, di partecipare alla rete dei servizi: vuole dire la impossibilità di ogni attività e la chiusura.    Verrebbero penalizzati anche i musei del capoluogo: il numero dei visitatori non consente, quanto a ricavi da bigliettazioni, alcun tipo di autonomia finanziaria; verrebbe meno la partecipazione ai piani di sviluppo, si costruirebbe una situazione di isolamento che colpirebbe al cuore l’essenza stessa del museo civico e la sua sopravvivenza. Il rischio, non teorico ma reale, sarebbe la riduzione a deposito di materiali.
            Molti interventi hanno giustamente ricordato il ruolo positivo svolto dall’Istituto regionale per i Beni Culturali; alcuni si sono rammaricati per un diverso modo di presenza, per modifiche alla legislazione regionale che hanno, in parte, mutato le impostazioni originarie.
            Osservazioni condivisibili e che meriterebbero un più ampio spazio. Mi chiedo, e chiedo a chi su questi temi è intervenuto, se l’origine delle trasformazioni non possa essere ritrovata proprio in quegli atti fondativi che oggi ricordiamo ? il nostro presente non era il futuro possibile insito nell’attività impostata nel 1974 ?
            Non è una domanda provocatoria, ma l’invito a ripercorrere dei processi formativi per potere ancora oggi agire secondo ragioni di conoscenza, di tutela, di promozione.

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