IL DESTINO GIURIDICO AMMINISTRATIVO DI VILLA ALDINI


Il destino giuridico amministrativo di 
Villa Aldini

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Giulio Volpe
Vicepresidente di Italia Nostra Bologna

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Al fine di inquadrare al meglio il destino giuridico-amministrativo di Villa Aldini a Bologna, oggi che essa risulta inserita tra i beni immobili pubblici di rilevante interesse culturale considerati alienabili dal Comune di Bologna insieme a  Villa Ghigi, alla centrale idroelettrica del Battiferro e ad altri edifici, diviene indispensabile conoscere per quale strada si è arrivati in Italia all’elaborazione di un regime speciale per i beni culturali e alla suprema funzione sociale della proprietà culturale, in parallelo all’affermazione della “primarietà del valore estetico-culturale” su qualsiasi altro.
Si è ricordato come lo straordinario pregio artistico e storico di Villa Aldini sia stato evidenziato, agli albori del XIX secolo, perfino dalla competente Commissione Pontificia che annoverava artisti del calibro di Valadier o Thorvaldsen, riunitasi per l’occasione nientemeno che al Colosseo. Questo episodio aumenta la suggestione che permea quella straordinaria villa, e ci richiama, senza più alcuna mediazione, ai pionieri della tutela moderna proprio nell’amministrazione dello Stato Pontificio, dapprima ed ancora nel Settecento con Benedetto XIV Lambertini, quando il cardinale Valenti Gonzaga inventava gli assessori “per pittura, scultura e antichità”, e poi intorno a Papa Pio VII Chiaramonti, che nel 1802 firma il chirografo redatto dal giureconsulto Carlo Fea, ivi nominando lo scultore Antonio Canova “Ispettore Generale delle Belle Arti”, su un articolato che passando attraverso l’editto del camerlengo Pacca, una ventina d’anni dopo, cristallizzerà gli istituti giuridici del sistema di tutela e di valorizzazione più stimato al mondo.
Dopo molto tempo, la Commissione Franceschini, istituita nel 1964 per valutare le condizioni di salute del patrimonio culturale italiano, definì bene culturale ogni «testimonianza materiale avente valore di civiltà», così che il bene da perituro divenga perenne testimonianza di un'epoca e possa essere «ereditato» dalla collettività nel corso delle generazioni. Non a caso nella tradizione anglosassone si parla di “cultural heritage”, come di qualcosa che deve ad ogni costo essere trasmesso alle generazioni a venire, tale e quale fu ricevuto. In questo senso lo Stato moderno ha il compito di interessarsi ad ogni oggetto dell’interesse generale, compreso il patrimonio culturale nazionale, in quanto testimone privilegiato della memoria del Paese. Questa estensione del concetto di patrimonio è stata recepita anche formalmente dallo Stato italiano grazie all'adesione all'Unesco e con l'istituzione, nel 1974/75, del Ministero per i beni culturali.
Il patrimonio culturale italiano d'altra parte rappresenta un valore fondante della società civile, affermato dalla Costituzione che, all'art. 9 ed entro i suoi principi fondamentali, stabilisce che la «Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico artistico della Nazione» e «promuove lo sviluppo della cultura».
Il principio è stato riaffermato e potenziato dalla Corte Costituzionale, capace di sentenziare che l'art. 9 della Costituzione sancisce «la primarietà del valore estetico-culturale», che non può essere «subordinato ad altri valori, ivi compresi quelli economici».
La norma costituzionale impone insomma alla Repubblica, nelle sue articolazioni territoriali, una politica volta alla conservazione del bene e alla sua fruizione da parte della collettività. Dunque, contempla entrambi gli ambiti funzionali, tutela e valorizzazione, che la dottrina più colta ed avveduta già da tempo considera inscindibili e difficilmente distinguibili a fini di attribuzione delle corrispondenti competenze. La gestione di questo patrimonio culturale investe trasversalmente i beni, le attività, i servizi e i diritti culturali. Ecco che un “piano gestionale per Villa Aldini” dovrebbe contemplare tutte queste voci.
Esiste però, certamente, un problema di grave penuria finanziaria. Nel 2000 la spesa per la cultura in Italia ha superato le 200.000 lire pro capite nonché per la prima volta la soglia dell'1% della spesa pubblica complessiva (esattamente 1,3%), generalmente considerata il minimo livello ammissibile. L'incidenza sul PIL è stata dello 0,57%. Nel 2007, tale incidenza scivola di nuovo, se non erro, allo 0,33 % ed ancora oggi lo stallo continua. In un quadro di tale miseria, non sorprende che ci si abbandoni più facilmente alla tentazione di vendere.
Tutto ciò premesso, seguono qui alcune delle domande che si pongono rispetto a ipotesi di vendita o cessione di gestione di un immobile di rilevante interesse culturale, dunque anche rispetto al caso di Villa Aldini a Bologna:

-        Quali sono le condizioni per una gestione sostenibile ?
-        Quale contributo possono apportare i privati alla qualità della fruizione del bene culturale?
-        Su quali basi avviare eventualmente forme di gestione condivisa?
Non si intende qui demonizzare il privato, ma si vuole richiamare il pubblico ad un severo esame di coscienza, affinché si giunga ad eventuale cessione solo come extrema ratio, come ultima spiaggia dopo lo scarto meditato di ogni ipotesi di proprietà e gestione pubblica. Soltanto allora si valuti la via privata, senza dimenticare che l’alienazione di bene culturale pubblico/demaniale è soggetta a una disciplina ben precisa, di cui al capo IV, sezione I, della Parte Seconda (Beni Culturali) del Codice dei Beni Culturali del 2004 (artt. 53 e segg.).
Non essendo qui luogo ad elencare le norme, ci si limita di seguito a trarre qualche osservazione a margine.
Secondo una immutata impostazione generale, l'alienazione di beni culturali "privati" è libera, salvo l'obbligo di presentarne denuncia al ministero, mentre i beni culturali (immobili) appartenenti ad enti territoriali, ad altri enti pubblici e ad enti privati senza scopo di lucro sono oggetto di una tripartizione che distingue beni assolutamente inalienabili, demaniali e non demaniali; beni temporaneamente inalienabili, per i quali il procedimento di verifica ai sensi dell'art. 12 non si è compiuto e che soggiacciono a un regime di inalienabilità provvisoria; beni alienabili attraverso l'applicazione della particolare disciplina che poggia sull'autorizzazione ministeriale e sulla garanzia della permanenza di buona parte del regime pubblicistico che si applicava al bene precedentemente all'alienazione.

Per ottenere l’autorizzazione alla alienazione del bene culturale pubblico di cui sia stato verificato l’interesse culturale, è imprescindibile la presentazione di una
dichiarazione concernente i punti in elenco all’articolo 55, comma 2 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio:

a) indicazione della destinazione d'uso in atto;

b) programma delle misure necessarie ad assicurare la conservazione del bene;

c) indicazione degli obiettivi di valorizzazione che si intendono perseguire con l'alienazione del bene e delle modalità e dei tempi previsti per il loro conseguimento;

d) indicazione della destinazione d'uso prevista, anche in funzione degli obiettivi di valorizzazione da conseguire;

e) modalità di fruizione pubblica del bene, anche in rapporto con la situazione conseguente alle precedenti destinazioni d'uso.

L'autorizzazione, anche nel caso di Villa Aldini, dovrà essere rilasciata dalla Direzione regionale, acquisito il parere del Soprintendente e sentita la Regione nonché, per suo tramite, gli altri enti pubblici territoriali interessati.

Il Ministero ha altresì facoltà di concordare con il soggetto interessato il contenuto di detta autorizzazione,  sulla base di una valutazione comparativa fra le proposte avanzate ed altre possibili modalità di valorizzazione del bene (art. 55, comma 3-ter); l'autorizzazione ad alienare comporta la sdemanializzazione del bene cui essa si riferisce; tale bene resta comunque sottoposto a tutte le disposizioni di tutela di cui al presente titolo (art. 55, comma 3, quinquies); l'esecuzione di lavori ed opere di qualunque genere sui beni alienati è sottoposta a preventiva autorizzazione ai sensi dell'articolo 21, commi 4 e 5 (art. 55, comma 3, sexies).
La modifica recente più significativa concerne invece la reintroduzione della clausola risolutiva espressa, che era stata proposta dal d.p.r. 283/2000  (art. 11) e che mai divenne operativa a causa della mancata applicazione del regolamento stesso.  Dunque, il nuovo  art. 55-bis del Codicedisciplina l'ipotesi che vede l'acquirente inadempiente nei confronti degli impegni assunti con il contratto di alienazione. Vi si prevede che "le prescrizioni e condizioni contenute nell'autorizzazione di cui all'articolo 55 sono riportate nell'atto di alienazione, del quale costituiscono obbligazione ai sensi dell'articolo 1456 del codice civile ed oggetto di apposita clausola risolutiva espressa" (comma 1). Il contratto, dunque, deve necessariamente contenere tale clausola, che, in quanto imposta dalla norma, ne costituisce elemento essenziale. Sempre ripreso dal d.p.r. 283/2000 è poi il ruolo di vigilanza della soprintendenza, che, qualora verifichi l'inadempimento da parte dell'acquirente degli impegni assunti con il contratto, si fa promotrice della risoluzione del contratto stesso, dandone comunicazione all'ente alienante (comma 2). Effetto dell'esplicarsi di tale clausola è il venir meno del passaggio di proprietà già avvenuto e dunque il ritorno del bene nella disponibilità e nell'appartenenza dell'ente che ne era l'originario proprietario.
Venendo al tema della VALORIZZAZIONE, anche da recente fonte ministeriale si apprende che tutta la disciplina codicistica inerente la valorizzazione è fortemente improntata al principio di cooperazione interistituzionale. Con una disciplina alquanto aperta, il Codice invita le amministrazioni a porre in essere un sistema di valorizzazione concordata o congiunta, attraverso la creazione di modelli di governance condivisa.

A questo proposito si vedano, anche rispetto al caso di Villa Aldini, gli articoli 111 e 112 del Codice stesso, dove l’apertura alla definizione di linee strategiche programmatiche di valorizzazione del patrimonio e del territorio vede anche il coinvolgimento dei privati, come per esempio soggetti economici/imprenditoriali o associazioni culturali o di volontariato.
Merita altresì una citazione particolare il comma 4 dell’art. 112 in base al quale lo Stato, le regioni e gli enti pubblici territoriali procedono alla stipula di accordi per definire strategie ed obiettivi comuni di valorizzazione.

Emerge insomma, agli occhi della stessa amministrazione italiana, la “necessità per tutte le istituzioni di procedere ad uno studio attento delle singole realtà da valorizzare, analizzandone le caratteristiche e individuando quelle linee di intervento in grado di promuovere, con il concorso di tutti i soggetti interessati, istituzionali e non, la valorizzazione del patrimonio culturale e del territorio stesso”.

Per concludere, lo strumento giuridico utile ai nostri fini è dunque forse l’accordo, ai sensi del citato art 112, comma 4 del Codice, attraverso cui si può concordare l’espletamento di attività molto diversificate e atipiche, da interventi di conservazione alla creazione di uffici comuni tra enti o tavoli di concertazione alla creazione di reti e sistemi territoriali finalizzati alla valorizzazione del patrimonio, senza necessariamente vendere (o svendere) al privato.
Peraltro, anche “nella non creduta e denegata ipotesi” che il governo di Bologna, con l’avallo del Soprintendente e del Direttore Regionale competenti, addivenisse alla determinazione di vendere Villa Aldini a soggetti privati, detti soggetti dovranno vigilare attentamente sulla previsione di chiare e certe condizioni di rispetto dell’integrità e della dignità del bene, nonché sull’adozione di un preciso programma di garanzia della sua valorizzazione e della sua fruizione pubblica. Ai primi segni di cedimento o di trasgressione, non si potrà escludere l’applicazione della “clausola risolutiva espressa”, di cui al citato art. 55-bis del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio.
 

Bologna,  30 giugno 2014,                            Avv. Giulio Volpe

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