VILLA ALDINI E LA SALVAGUARDIA DI UN EDIFICIO NEOCLASSICO



Villa Aldini e la salvaguardia 
di un edificio neoclassico nel XIX secolo

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Francesco Ceccarelli
Professore di Storia dell'Architettura 
Università di Bologna

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Villa Aldini, pur sotto agli occhi distratti dei bolognesi, è un monumento di primaria importanza nella storia della città, testimone di uno dei periodi più controversi della nostra modernità e delle trasformazioni, davvero rivoluzionarie, che la città attraversò durante gli anni napoleonici.
E’una rivoluzione urbana silenziosa quella di primo Ottocento, ma che tuttavia agisce in profondità. Che agisce nel dna di Bologna, non nel suo patrimonio genetico, ma piuttosto nel suo patrimonio immobiliare. Introducendo nuovi modi di abitare e di vivere.
Sono gli anni in cui chiese e conventi vengono espropriati, incamerati dallo stato, messi all’asta e venduti. Gli anni della grande redistribuzione del patrimonio della chiesa, della prima grande opera di secolarizzazione.
E’così che i monasteri collinari finiscono in mani private e cambiano funzioni, ritmi di vita, culture. E’così che nascono le nuove ville suburbane piccole e grandi, casini di delizia, vigne da diporto, orti per diletto.
Nasce insomma la nuova collina post religiosa e neo borghese .
Dopo Napoleone, quella che per secoli era stata una sacra corona di monti e monticelli solcati da antichi sentieri di preghiera nel segno della devozione popolare, diventa il belvedere privilegiato del nuovo establishment laico e filo francese, di una èlite che lancia la moda del vivere in pendio, circondati dal verde e con la città sullo sfondo.
In questa collina, ai valori panoramici si sommano presto gli artifici architettonici. E questi creano un paesaggio del tutto nuovo, che esalta la natura del sito, proiettando in collina storie neo classiche in forma di acropoli padane.
E’Antonio Aldini, segretario di stato di Napoleone, che riesce a mettere le mani sul luogo più ambito fra tutti, il convento di Santa Maria del Monte e la sua sacra rotonda romanica. 
Sulla vetta del Monte, Aldini sogna di fare una residenza reale. Napoleone in persona pare avesse apprezzato la vista sconfinata, verso il Po e le Alpi che si gode da qui.
Poi il progetto cambia. Aldini costruisce una grandioso padiglione a belvedere che incorpora il santuario medievale, quasi fosse un innesto forzato per sfruttare al meglio le sue idee e lo riveste di loggiati all’antica.
Forse l’idea di fondo è di Canova. I disegni architettonici sono quelli di Nadi e Martinetti, che gli danno sostanza e materia. Ne risulta una costruzione neo greca, forse la più originale residenza neo greca dell’Italia di primo Ottocento. Un frammento dell’Attica sul primo Appennino. Per inciso:  Proprio mentre Lord Elgin si appresta a impacchettare i marmi del Partenone e a imbarcarli da Atene a Londra, sulla collina bolognese si comincia a fabbricare con quello stesso linguaggio classico, così chiaro ed eloquente, più ionico che dorico, il cui messaggio retorico non sarebbe passato inosservato.
Tutti gli intelligenti d’arte ne apprezzano subito il messaggio, ne riconoscono la potenza visiva e si lasciano rapire dal nuovo profilo collinare, al tempo stesso antico e regale.
Al vertice del Monte è la villa di Aldini, poi, lungo la costa, oltre il suo giardino, si coglie il senso profondo del nuovo insediamento che riflette la piramide sociale, nella scala gerarchica che va dai potenti governanti napoleonici ai nuovi cittadini comuni. E’una moda che contagia, una febbre del paesaggio, una ricerca del Parnaso, poco importa se reale o mitizzato.
Anche gli artisti scelgono di abitare in questo piccolo Eden. Letterati come Costa, scultori come Baruzzi costruiscono le loro case sempre qui e ne curano i giardini e gli orti. E cominciano a proteggerne i confini e l’ambiente, con tutte le sue memorie e delizie.
E così nasce una prima tutela.
E’molto significativo, e anche troppo poco conosciuto, quel che accade nel 1833. Aldini è tramontato dopo il tracollo napoleonico e un certo Bignami ha comperato la villa. Privo di scrupoli, decide di demolirla, per far soldi vendendo i mattoni e i legnami. Una mossa infelice. Bologna insorge indignata e protesta. La collina non si tocca e tantomeno le sue nuove architetture, modernamente antiche.
Accade l’impensabile. La commissione pontificia di Belle Arti a Roma blocca lo scempio e impone un vincolo. La decisione è presa da artisti sapienti come Thorvaldsen, Camuccini e Valadier e approvata dal pontefice. La cosa è seria. Quella su Villa Aldini è forse la prima legge di tutela moderna su di un edificio contemporaneo. Si vincola l’edificio, la sua qualità indiscutibile, e il paesaggio circostante, che da lei trae valore. Il dato è stupefacente, se solo si pensa che è la chiesa a proteggere un edificio ultra laico che si era sostituito a un tempio venerabile. Tanto che scampa alla distruzione anche il timpano di De Maria, con le splendide, ma imbarazzanti gesta di uno Zeus che tutti ancora leggono come un Bonaparte trionfante.
Alla fine vincono tutti. E soprattutto i bolognesi, perché nel decreto si introduce anche il principio che in caso di vendita della villa sia la città, per prima, ad avere la prelazione su di essa.
E Bologna guadagnerà effettivamente la Villa, qualche tempo più tardi, recuperandone anche il giardino, che si proietta a valle, fin quasi ai viali.
Sembra un lieto fine, ma non è così. Per oltre un secolo Villa Aldini, finalmente pubblica, resta quasi deserta o male impiegata. Si deteriora e si consuma il suo destino, che è anche un declino, in una città che sembra distratta da altre forme della modernità. Paradossale. E’di fronte agli occhi di tutti, lassù in alto, come notava Stendhal, ma nessuno la vede più.
Eppure la collina, la moderna collina, possiamo ben dire che nasce con lei.  E lei, non è forse l’icona in cui la collina si specchia?
E allora, proviamo a risvegliare la villa. Senz’altro è il migliore servizio che possiamo fare per riscoprire assieme a lei l’ambiente che la circonda e continuare a conservarne il paesaggio unico in cui è inserita.


Francesco Ceccarelli

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